Datemi un pizzicotto perché io ancora non ci credo di aver fatto un viaggio in Tibet.
E anche se 7 giorni non sono certo come i più famosi 7 anni del libro di Harrer (o del film con Brad Pitt che per carità, mica lo buttiamo via) sono comunque abbastanza per vivere un sogno.
In questo post vi racconto il nostro itinerario di 7 giorni in Tibet, da Lhasa fino al confine con il Nepal passando dal Campo Base dell’Everest.
Informazioni per un viaggio in Tibet: cosa sapere prima di partire
- Giorni: gli 8 giorni iniziali sono diventati 7 causa cancellazione volo Kathmandu-Lhasa per cattivo tempo. Fortunatamente siamo riusciti a recuperare tutto quello che era in programma tranne, purtroppo, il pernottamento al Campo Base dell’Everest, ma tant’è.
- Voli: biglietto di sola andata Kathmandu-Lhasa con Sichuan Airlines prenotato a fine gennaio per fine aprile al costo di 200€ a testa.
- Hotel: come vi avevo già detto nel post su come organizzare un viaggio in Nepal e Tibet, non è possibile visitare il Tibet in autonomia.
Questo significa essere obbligati ad appoggiarsi ad un’agenzia locale (da leggersi “cinese”) che si occuperà di ogni cosa, compresa la prenotazione degli hotel. Noi abbiamo dormito in hotel di categoria media: in tutti era compresa la prima colazione e ci siamo trovati bene, solo nell’hotel di Xegar abbiamo sofferto un po’ il freddo ma c’è da dire che eravamo a 4.300 metri di altitudine. - Visti e permessi: per entrare in Tibet dal Nepal avrete bisogno di fermarmi sul suolo nepalese per almeno 3 giorni lavorativi, ovvero il tempo necessario alla vostra agenzia per sbrigare le pratiche di ottenimento del visto cinese (90$, normalmente già incluso nel pacchetto dell’agenzia).
Oltre al visto, l’agenzia vi procurerà il Travel Tibet Bureau Permit (TTB Permit), un documento che riceverete in duplice copia originale da presentare in ingresso e in uscita dal Tibet, nonché il Public Security Bureau Permit (PSB Permit) che vi servirà per superare i vari checkpoint sulla strada che da Lhasa vi condurrà alla frontiera con il Nepal. - Mezzi utilizzati: nel pacchetto con la nostra agenzia erano inclusi anche tutti gli spostamenti con il pulmino che ci ha accompagnato da Lhasa fino alla frontiera con il Nepal lungo la cosiddetta Friendship Highway, rifornimenti di benzina compresi.
- Altitudine: l’altitudine media dell’altopiano tibetano è di 4.000 metri e si passa dai 3.600 metri della capitale Lhasa ai 5.200 metri dell’Everest Base Camp.
Premesso che la capacità di acclimatarsi più o meno rapidamente non dipende né dalla forma fisica né dall’allenamento, ci sono comunque alcune accortezze che si possono prendere.
La prima è sicuramente bere il più possibile, sforzandosi anche quando non si ha sete.
Ci si può poi aiutare prendendo il famigerato Diamox, un diuretico che abbassa la pressione (da farsi prescrivere dietro ricetta medica).
Infine un buon accorgimento da adottare è quello di pernottare sempre ad un’altitudine inferiore rispetto a quella massima raggiunta durante il giorno. - Costo totale: circa 1.800€ a testa tutto compreso (visto, hotel con prima colazione, pulmino con driver e rifornimenti, guida tibetana, ingresso a Potala, templi e monasteri, rifornimento d’acqua) che ammetto essere una cifra altissima per i nostri standard e che volendo si può ammortizzare se decidete di aggregarvi a qualche gruppo più numeroso.
Itinerario di viaggio: mappa e luoghi da non perdere in Tibet
Tappe di viaggio: cosa fare e cosa vedere in Tibet giorno per giorno
Giorno 0 – Si parte….o no?
Il nostro volo Kathmandu-Lhasa dovrebbe partire alle 11, ma dopo una serie di ritardi viene cancellato causa brutto tempo.
La Sichuan Airlines ci riprotegge sul volo del giorno dopo e organizza per noi transfer e pernottamento a Kathmandu: tutto da rifare quindi, ma trascorriamo un’altra giornata a Kathmandu, girovagando tra Durbar Square e Thamel.
Direi che tutto sommato non ci possiamo lamentare.
Pernottamento: Annapurna Hotel, anonimo hotel in stile occidentale abbastanza vicino a Durban Square. Molto meglio il Planet Bhaktapur Hotel!
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Giorno 1 – Lhasa
Questa volta ci siamo: il volo parte puntuale e dopo aver sorvolato la catena himalayana in circa due ore atterriamo a Lhasa.
Non sappiamo se per l’emozione di trovarci finalmente qui o per effetto dell’altitudine, ma appena scesi dall’aereo sentiamo una leggera tachicardia e un formicolio alle dita delle mani.
La procedura d’immigrazione scorre piuttosto lentamente, alcuni poliziotti cinesi fanno compilare dei moduli d’ingresso che poi si riveleranno inutili, scatenando un parapiglia generale.
L’atmosfera è abbastanza rigida, nessuno dei viaggiatori occidentali – trekker per la maggior parte – sembra particolarmente ben voluto.
Finalmente è il nostro turno per i controlli biometrici e la verifica del nostro Tibet Tourism Bureau Permit: welcome in China, ci dicono.
Ritirati i bagagli incontriamo la nostra guida tibetana, Dawa, che ci porge le tipiche sciarpe bianche di benvenuto: welcome in Tibet, ci dice lui.
Lungo la strada che dall’aeroporto ci porta a Lhasa, Dawa è prodigo di consigli su come dobbiamo comportarci per affrontare l’altitudine: sforzarci di bere spesso, camminare lentamente durante questi primi giorni a Lhasa e…non fare la doccia, almeno per oggi!
Tra le raccomandazioni anche quella di non fotografare mai i militari cinesi, soprattutto durante eventuali controlli. Ça va sans dire.
Arrivati al nostro hotel Dawa ci aiuta con il check-in e ci consiglia un posticino tibetano dove mangiare, Lhasa Kitchen, che diventerà il nostro appuntamento fisso di ogni sera talmente ci troviamo bene.
Siamo così vicini a Bakthor Square e a Jokhang Temple che però non resistiamo: anche se per la prima sera a Lhasa dovremmo stare tranquilli e riposarci, decidiamo comunque di fare due passi lì.
Per accedere alla piazza bisogna passare attraverso i metal detector, ma dei militari ci bloccano e ci fanno delle domande in cinese (!!!) finché non arriva un altro militare che scandisce le parole “passport” e “hotel“.
D’ora in avanti almeno sapremo come regolarci ad ogni varco di controllo.
L’atmosfera di Bakthor Place è magica e la nostra prima sera in Tibet si conclude così, osservando i pellegrini che compiono la kora intorno al Jokhang Temple e guardando il Potala illuminato dalla nostra stanza.
Pernottamento: Shang Bala Hotel, Lhasa
Giorno 2 – Lhasa
La giornata di oggi inizia con la visita di Piazza Bakthor e del Jokhang Temple.
Dawa ci aspetta puntuale proprio di fronte al nostro hotel con il suo timido sorriso e quella che sarà la frase che ci rivolgerà ogni mattina: thashidalek, come avete dormito?
La relativa quiete di ieri di sera di Piazza Bakthor è stata sostituita da un chiassoso andirivieni di pellegrini che brandiscono delle mini ruote di preghiera portatili e collane simili ai nostri rosari che sgranano mentre camminano.
Il Jokhang Temple non solo è il tempio più importante di Lhasa, ma anche di tutto il Tibet perché qui è custodita la sacra statua di Buddha Shakyamuni.
Vorremmo fermarci ad ammirare ogni dettaglio con calma, ma la visita alla parte interna del tempio non può durare più di quindici minuti cronometrati (!!!) da poliziotti cinesi ad una specie di check point.
Ci ritroviamo così a slalomare tra pellegrini ed altri turisti per la maggior parte cinesi, respirando per la prima volta l’odore acre delle lampade al burro di yak con Dawa che ci dà una prima infarinatura di religione buddista.
Finita la visita Dawa ci invita a provare quello che per i tibetani è un vero e proprio rito quotidiano, un po’ come il caffè per noi: servito in una specie di thermos, lo sweet tea è un mix di tè nero, zucchero e latte di yak dal sapore particolarissimo, ma soprattutto un momento di convivialità.
Siamo gli unici non tibetani e attiriamo diversi sguardi curiosi, ma nei prossimi giorni impareremo a farci l’abitudine.
Ci avviamo poi verso il Potala, simbolo indiscusso di Lhasa e di tutto il Tibet, la cui visita è strettamente regolata: i metal detector sono ovunque e sembra che anche tra gli stessi monaci si nascondano poliziotti cinesi di ronda.
Il Potala è immenso, impossibile non rimanere incantati da questo luogo e da quello che rappresenta: sviluppato su tredici piani, racchiude in sé qualcosa come mille stanze, di cui solo una minima parte visitabile.
Una curiosità: la parte bianca del Potala era la parte amministrativa, comprendente le residenze – inclusa quella del Dalai Lama, gli uffici, le sale di rappresentanza e la stamperia; mentre il palazzo rosso era dedicato agli studi religiosi e alla preghiera.
La nostra giornata con Dawa finisce qui e a metà pomeriggio siamo liberi per gironzolare tra le strade di Lhasa da soli.
Esploriamo quindi il Parco Lukhang attorno al Potala, la piazza antistante – con il Monumento alla Liberazione (da non si sa cosa in realtà, come tra l’ironico e lo sconsolato ci ha fatto prima notare lo stesso Dawa) e ci godiamo il crepuscolo sul Potala prima di tornare nuovamente verso il nostro hotel.
Pernottamento: Shang Bala Hotel, Lhasa
Giorno 3 – Lhasa
Il programma di oggi prevede la visita ai due monasteri appena fuori Lhasa.
Iniziamo dal Monastero di Drepung, situato a circa 6 km da Lhasa e ad un’altitudine di 3.800 metri.
La parola drepung, che letteralmente significa “mucchio di riso”, allude ai numerosi edifici bianchi che lo compongono.
E in effetti più che in un monastero come lo intendiamo noi, sembra di entrare in un piccolo villaggio che si inerpica lungo il fianco della collina.
La grande sala delle riunioni, chiamata tsogchen, è la struttura principale del complesso di Drepung.
A quanto pare siamo particolarmente fortunati perché vediamo i monaci radunarsi nel cortile antistante la grande sala di preghiera.
La solennità del momento è palpabile, vediamo tutti i monaci seduti ai lati, tranne un monaco che si siede al centro e due altri monaci che rimangono in piedi: è l’inizio del famoso dibattito.
Sosta pranzo in un localino stile “camionisti in trattoria”, dove ci rendiamo conto che la vera passione culinaria dei tibetani è rappresentata dai noodles cucinati in tutte le salse e poi nel primo pomeriggio ci spostiamo a visitare un altro monastero, quello di Sera situato a 4.000 m.
Qui i monaci, un tempo numerosissimi (oltre 5000!), sono ora ridotti a poche centinaia.
Prima di dirigerci verso la grande sala di preghiera ci fermiamo in un piccolo edificio dove sono conservati tre meravigliosi mandala.
Ma il vero motivo per cui non si può perdere questo monastero è il famoso dibattito dei monaci che si tiene ogni pomeriggio tra le 15 e le 17.
Il dibattito è un metodo di apprendimento messo a punto dai monaci per imparare le scritture sacre: restiamo per più di un’ora incantati a guardare quello che sembra essere un misto tra una danza e un duello, con i giovani monaci che si sfidano a colpi di domande e risposte.
Tornati poi a Lhasa trascorriamo l’ultima sera girovagando nuovamente tra Bakhtor Square e il Potala.
Pernottamento: Shang Bala Hotel, Lhasa
Giorno 4 – Verso Shigatse
Siamo pronti per iniziare il nostro overland: un ultimo sguardo a Lhasa e via!
La giornata di oggi sarà costellata da diverse soste panoramiche e dalla visita delle due città tibetane più importanti, Gyantse e Shigatse.
Primo view point è il Passo Kampa-la, dove ammiriamo dall’alto la vastità dell’altopiano tibetano.
Essendo questa sosta parecchio popolare, i tibetani si sono attrezzati con bancarelle di artigianato locale, ma soprattutto mettendo in posa a beneficio dei turisti i famosi mastini tibetani (spesso con gli occhiali da sole, non solo per fare le foto con i turisti, ma per proteggere i loro occhi delicati dal forte sole vista l’altitudine), le piccolissime e morbidissime pecore tibetane, nonché gli onnipresenti yak agghindati secondo i costumi tradizionali.
Ovviamente in men che non si dica veniamo circondati e mio marito si ritrova senza quasi rendersene conto con una pecora tra le braccia.
E a nulla valgono i miei tentativi di convincere alcuni tibetani a fare una foto solamente ai due mastini tibetani senza dovermi mettere in mezzo ai due cagnoloni: per fortuna interviene Dawa e riusciamo “a liberarci”.
Ci rimettiamo in marcia seguendo la strada che sale tortuosa fino al passo Khamba-la (a 4.794 m) dove ammiriamo le scintillanti acque turchesi dello Yamdrok-tso, uno dei quattro laghi sacri del Tibet (gli altri sono il Lhamo Latso, il Namtso e il Manasarovar) e dimora di divinità.
Questo è il motivo, ci spiega Dawa, per cui in prossimità di laghi e corsi d’acqua si trovano sempre tantissime bandierine di preghiera.
L’anima del Dalai Lama e il Lago Yamdrok
Lo Yamdrok-tso ha un legame speciale anche con la ricerca dell’anima del Dalai Lama.
Dopo la sua morte infatti, i monaci anziani che sono responsabili della ricerca della sua reincarnazione si recano proprio qui per pregare e gettando nel lago una serie di oggetti sacri sono in grado di decifrare i riflessi e le increspature che si creano sull’acqua e che indicano il luogo in cui il Dalai Lama si è reincarnato.
Ridiscesi a quota 4.400 metri costeggiamo il lago prima di arrivare al paese di Nangartse, dove ci fermiamo per una veloce pausa pranzo in quanto i chilometri da percorrere oggi sono davvero tanti.
Riprendiamo poi a salire fino all’impressionante Passo Karo-la, dove tocchiamo la quota massima di oggi di 5.050 metri: qui ci fermiamo a fotografare il maestoso ghiacciaio omonimo e la bella stupa che lo fronteggia.
Scendiamo poi di quota fino al belvedere affacciato sul bacino artificiale di Manak.
Anche qui veniamo presto circondati da alcuni tibetani che cercano di venderci bandierine di preghiera e oggetti di artigianato, oltre che proporci baratti alquanto bizzarri (i nostri occhiali da sole per alcune pietre dipinte a mano) che decliniamo cercando di non sembrare troppo scortesi.
A metà pomeriggio arriviamo finalmente a Gyantse, situata a 3.980 metri di altitudine, e iniziamo subito la visita del Monastero di Pelkhor Chode.
La sua caratteristica principale è il gigantesco Kumbum, il più grande chörten di tutto il Tibet: sviluppato su sette piani, è costituito da 108 cappelle riccamente decorate ed è considerato una delle meraviglie architettoniche tibetane.
Il numero 108 non è casuale: richiama infatti i 108 grani del rosario tibetano e il percorso che i fedeli devono compiere per raggiungerne la cima simboleggia il percorso verso l’Illuminazione e il Nirvana.
Ci rimettiamo poi in strada verso Shigatse, situata a 3.840 metri di altitudine e nostra destinazione finale per oggi.
Essendo già pomeriggio inoltrato andiamo subito a visitare il Monastero di Tashilhumpo, uno dei pochi monasteri scampati alla furia della Rivoluzione Culturale.
Questo monastero, il più esteso di tutto il Tibet, è legato alla figura del Panchem Lama, la seconda carica religiosa tibetana dopo il Dalai Lama, ad oggi al centro di un mistero non ancora risolto.
La figura del Panchem Lama
L’ultimo Panchen Lama è scomparso dopo il suo riconoscimento da parte del Dalai Lama nel 1995 e sostituito da un Panchen Lama scelto dal governo cinese: ad oltre vent’anni dalla sua scomparsa nessuno sa dove si trovi (e se sia ancora vivo) il legittimo Panchem Lama, che all’epoca in cui venne rapito aveva soltanto sei anni, facendo di lui il più giovane prigioniero politico della storia.
Nel monastero si possono vedere le tombe dei Panchem Lama del passato, un’enorme statua dorata del Buddha del futuro e la grande sala delle riunioni dove si può ammirare l’imponente trono del Panchem Lama.
La nostra giornata finisce ammirando il tramonto sullo Shigatse Dzong, un Potala in miniatura costruito proprio su modello di quello di Lhasa e attualmente vuoto.
Pernottamento: Manasarovar Hotel, Shigatse
Giorno 5 – L’Everest Base Camp
Oggi è il D-day, il giorno che aspettiamo con più trepidazione dall’inizio del viaggio.
Partiti di buon mattino facciamo il primo stop al simbolico landmark che segna con esattezza i 5.000 km che ci separano da Shanghai, come se la cosa dovesse darci chissà quale fremito: ovviamente non è così per i turisti cinesi, lanciatissimi nelle più svariate pose fotografiche.
La seconda sosta è invece decisamente più importante: dopo aver superato una serie di checkpoint, ci fermiamo infatti al Passo Gyatso-la, il punto più alto di tutto il viaggio con i suoi 5.248 metri.
Qui un grande arco metallico che sovrasta la strada e avvolto da bandierine di preghiera segna l’ingresso al Qomolangma National Park: all’orizzonte l’immensità della catena himalayana e finalmente il Qomolangma, il Monte Everest.
La strada che dobbiamo fare oggi è decisamente lunga e parecchio dissestata, con continui saliscendi e passi da valicare.
Nel primo pomeriggio raggiungiamo il Passo Pang-la da cui si possono vedere ben cinque Ottomila, si riconoscono infatti:
- il Makalu (8.463m, con la sua forma a piramide)
- il Lhotse (8.516m, collegato direttamente all’Everest tramite il leggendario Colle Sud)
- sua maestà l’Everest (con i suoi 8.848m)
- il Cho Oyu (8.201m, la dea turchese)
- più in lontananza, il Shisha Pangma (8.027m, il più “basso” dei quattordici Ottomila).
Sotto di noi vediamo srotolarsi una strada tortuosissima che riprendiamo per avvicinarci all’Everest Base Camp turistico, quello alpinistico rimane infatti spostato in avanti di qualche chilometro e non è possibile avvicinarsi.
Accesso al Campo Base dell’Everest
Dal 1° maggio 2019 – quando si dice la fortuna! – non è più possibile raggiungere l’EBC con i propri mezzi, ma circa venti chilometri più indietro bisogna parcheggiare e utilizzare dei pullman elettrici.
Ora, la cosa sarebbe anche apprezzabile, se non per il fatto che prima di partire dobbiamo aspettare per un’ora buona che tutti (t-u-t-t-i) i turisti cinesi riuniti nel parcheggio facciano tappa bagno, perdendo quindi un sacco di tempo.
Finalmente riusciamo a partire e in circa mezz’ora raggiungiamo l’EBC dove, oltre al campo tendato turistico, si trova anche il Monastero di Rongbuk.
Dopo aver visitato quello che è il monastero edificato più in alto al mondo, proseguiamo fino al massimo che possiamo: scattiamo alcune foto e rimaniamo incantati ad ammirare l’Everest, nonostante alcune nubi che rimangono incagliate sulla punta della celebre parete nord.
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Dopo esserci riscaldati con un corroborante sweet tea e aver dato un’ultima occhiata a questo capolavoro della natura, ci rimettiamo in marcia e percorriamo la strada a ritroso.
Raggiungiamo nuovamente il Passo Pang-la giusto in tempo per il tramonto, grati per quello che è uno spettacolo che non dimenticheremo mai.
Facciamo rientro a Xegar che sono ormai le dieci di sera passate, dopo aver percorso innumerevoli chilometri, ma ci attende una meravigliosa sorpresa.
Dawa ha infatti chiamato una famiglia che conosce per farci preparare la cena: mangiamo i noodles più buoni della nostra vita, accompagnati da un tè verde aromatizzato con della frutta liofilizzata che ci scalda non solo le ossa intirizzite dal freddo, ma anche il cuore.
Pernottamento: Tingri Roof of the World, Xegar
Giorno 6 – Verso Kyirong
Il cielo azzurissimo di oggi fa risaltare ancora di più la catena himalayana e per un bel pezzo di strada riusciamo ancora a scorgere l’Everest dietro di noi.
Ma l’Ottomila protagonista del giorno è indubbiamente lo Shisha Pangma che ci accompagnerà per gran parte del tempo.
La strada scorre veloce tra buche da evitare che il nostro driver conosce a memoria e panorami spettacolari, soprattutto quando raggiungiamo il Lago Peiku-tso, situato a 4.591 m, che a noi a dire il vero ricorda un po’ il Mar Morto che abbiamo visto durante il viaggio in Israele.
Anziché proseguire lungo la strada che porterebbe al campo base dello Shisha Pangma, saliamo di nuovo di quota fino al passo Lalung-la dove, nonostante la neve e il freddo, ci fermiamo a contemplare ancora un pezzo di catena himalayana.
Imbocchiamo poi la discesa tra mille tornanti e tornati a valle proseguiamo in direzione Kyirong.
Il solito arco di metallo avvolto da bandierine di preghiera ci indica che stiamo per uscire dal Qomolangma National Park.
Da qui in avanti il paesaggio cambia completamente lasciando spazio a fiumi, cascate e – incredibilmente – pinete verdissime.
Paesaggi che potremmo definire quasi alpini, ma che per Dawa costituiscono invece il non ordinario e così lo sorprendiamo a fare fotografie e video che manda alla sua famiglia rimasta a Lhasa, non abituata a questi scenari.
Raggiungiamo Kyirong che è ormai pomeriggio inoltrato: dopo aver lasciato Dawa e il nostro driver ad un meritato riposo, noi ci lanciamo nell’esplorazione di questa piccolissima cittadina.
Notiamo subito, a differenza delle altre città tibetane viste finora, che qui la vicinanza con la frontiera nepalese si fa sentire: camminando per strada incrociamo infatti diversi lavoratori nepalesi, soprattutto muratori, che ci rivolgono dei gran sorrisi accompagnati da sinceri namastè.
A Kyirong non c’è molto da fare, ma su consiglio di Dawa andiamo a visitare il piccolo Monastero di Pakba.
Anche qui attiriamo la curiosità di una giovane monaca che dopo averci seguito di soppiatto e cercato di farci un video di nascosto, esce allo scoperto chiedendoci di scattare una foto insieme.
Non tutte le monache però sembrano essere contente della nostra presenza, tanto che veniamo quasi raggiunti da un sasso che ci viene lanciato da una monaca più anziana intenta a recitare una qualche formula scaccia stranieri, in passato spesso identificati dai tibetani come demoni…o forse semplicemente un pò fuori di testa, chissà!
Decidiamo che non è il caso di provocare incidenti diplomatici e così usciamo dal monastero per cercare un posticino dove cenare quando, caramba!, appena girato l’angolo incontriamo i nostri amici umbri (ciao Barbara! ciao Cristiano!) con cui domani prenderemo la stessa macchina per tornare in Nepal.
Baci, abbracci, racconti di come abbiamo passato gli ultimi giorni e una cena memorabile nell’unico posticino che ci ispirasse un minimo di pulizia a base di wraps, crocchette di pollo e patatine fritte (per la serie tutto il mondo è paese!).
Pernottamento: Shigatse Silver Star Hotel, Kyirong
Giorno 7 – Si torna in Nepal
Il ritrovo di oggi è fissato per le 9: per raggiungere la frontiera con il Nepal dobbiamo percorrere circa venti chilometri e superare diversi checkpoint.
La frontiera cinese apre alle 10, ma tutti i gruppi cercano di arrivare il prima possibile per essere tra i primi a fare i controlli.
Dopo aver fatto una foto ricordo con Dawa e il nostro driver ci mettiamo in coda: come all’ingresso anche in uscita ci viene fatta l’analisi biometrica del volto e delle impronte digitali, controllo passaporti e consegna della seconda copia del TTB Permit.
Un ultimo abbraccio commosso a Dawa e via, usciamo dalla mastodontica dogana cinese e – attraversato quello che viene chiamato “Ponte dell’Amicizia” – raggiungiamo la piccolissima dogana nepalese: praticamente uno sgabbiottino dove l’ingresso in Nepal viene segnato su un registro cartaceo.
Come prima cosa tiriamo indietro le lancette dell’orologio guadagnando un bel po’ di tempo (2 ore e 15 minuti per l’esattezza), ma ai controlli nepalesi ci accorgiamo che viene richiesto il timbro cinese di uscita – che però non viene apposto se non dietro esplicita richiesta – o una copia del TTB Permit.
Per fortuna la nostra agenzia ci aveva dato due fotocopie, mentre altri viaggiatori hanno dovuto tribolare un po’ andando a recuperare le prenotazioni aree.
Finalmente è il nostro turno e con il timbro d’ingresso in Nepal possiamo andare a cercare la nostra jeep di cui dal Planet ci avevano mandato la descrizione.
Troviamo così Roby, il nostro driver giovanissimo: ci mettiamo in marcia lungo quella che più che una strada è una pista, piena di buche e guadi da oltrepassare, non osando immaginare cosa voglia dire percorrerla durante la stagione delle piogge.
Dopo qualcosa come 9 ore di buche e scossoni, innumerevoli controlli di passaporti e bagagli, code infinite e traffico infernale arriviamo al Planet Hotel di Bhaktapur che è ormai sera per una cena nepalese con i fiocchi.
Ma questa è un’altra storia….
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